In questa densa puntata presentiamo le riflessioni filosofiche di Judith Butler (“La forza della nonviolenza”, Nottetempo 2020): il rigore del pensiero come base per una pratica attiva di contrasto alla violenza del potere. Ancora dall’ambito del femminismo americano ci arriva la traduzione italiana (Meltemi 2020) del testo di bell hooks “Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà”, che era uscito in inglese nel 1994: un testo di pedagogia liberatoria, profondamente attuale ora, mentre la chiusura delle scuole e l’insegnamento a distanza sollevano tanti dibattiti. Torniamo al mondo orientale, all’autobiografia e al flusso di coscienza col testo affascinante e scorrevole di Itikal Al Taii, “Le fave di Babilonia”, Tullio Pironti Ed., Napoli, 2020, a cura di Elena Matacena. Continuate a seguirci e a mandarci i vostri commenti e contributi all’indirizzo librarsi@casadonnemilano.it. Buona lettura al tempo delle nuove restrizioni anti-Covid! E incrociamo le dita.
Judith Butler
“La forza della nonviolenza- Un vincolo etico-politico”
Saggi/ figure Nottetempo,2020
La grande pensatrice femminista con questo nuovo libro vuole sostenere soprattutto un punto: la nonviolenza non è passività, comporta anzi un grado notevole di forza, personale e collettiva, e di impegno attivo in varie forme, proprio per contrastare gli altri tipi di violenza esercitati dal potere ai vari livelli. Il saggio contiene molte riflessioni stimolanti su come poteri istituzionali (e non) possano mistificare il tema facendo passare per violente proprio le persone e le minoranze attive che contestano pacificamente la propria oppressione ed emarginazione.
Per sostenere questa idea centrale Butler si misura in una discussione approfondita con Foucault, Gandhi, Fanon, Benjamin, Etienne Balibar e altri, e in particolare con Freud e Klein. Il riferimento ai (e alle) teorici della psicoanalisi nelle varie scuole concorre a focalizzare il tema del ruolo del Super-io nel sottoporre a controllo gli impulsi aggressivi e violenti presenti nell’Io e nell’inconscio.
Questo controllo, se eccessivamente rigido, rischia di far riemergere per altra via proprio gli impulsi violenti che vorrebbe censurare.
L’autrice invita ad avere uno sguardo accogliente sull’energia attiva e a volte aggressiva che può animare le proteste, individuali e collettive. Forse, secondo me, a questo proposito sarebbe utile distinguere meglio tra forza e violenza, nel campo degli oppressi e dei loro movimenti, per quanto ciò è possibile sul piano concettuale e praticabile nelle forme di lotta.
La consapevolezza della coesistenza di amore e odio, di gratitudine e di rabbia in tutte le relazioni di dipendenza e di interdipendenza contribuisce a far accettare le componenti aggressive, perché possano essere reindirizzate a sostegno delle lotte comuni, col loro carico di attivismo e di identificazione delle controparti: cioè di tutte le persone, le istituzioni e le ideologie che contrastano l’uguaglianza e la dignità delle persone.
La nozione di interdipendenza tra tutti i viventi, già presentata dalla filosofa in altri suoi saggi, acquista un rilievo particolare nella ridefinizione etica e politica della nonviolenza.
Altro argomento interessante sviluppato in questo libro – come anche in altri testi di Butler – è il concetto di “dignità di lutto”. Il valore (inestimabile) della singola persona si misura su quanto la sua eventuale fine e perdita sarebbe da compiangere e da rimpiangere, quindi degna di lutto da parte di sopravvissuti, parenti, amici, amanti e altri esseri umani in generale. Una previsione di valore che sostiene e accompagna tutti i momenti dell’esistenza attuale della persona, considerata sempre alla luce della sua scomparsa (inevitabile prima o poi).
Ciò dà fondamento alla lotta per l’uguaglianza radicale degli esseri umani, presupposto attivo che accompagna necessariamente le pratiche della nonviolenza.
A questo punto si prospettano altre domande, che spostano la riflessione su un piano universale e cosmico, e che l’autrice lascia aperte: anche tutte le altre esistenze, per esempio quelle di animali e vegetali, hanno diritto alla “dignità di lutto”?
E anche gli oggetti naturali o culturali, anche le forme collettive del vivente, come i movimenti, le istituzioni, i popoli e le culture?
La domanda sottintende ovviamente un impegno attivo per la salvaguardia di boschi e foreste, come anche di popoli e culture oppresse, che rischiano di essere cancellati da guerre, devastazioni ambientali e dinamiche di potere; ma se formulata sul piano generale ha dei risvolti che vanno ripensati.
Meriterebbero “dignità di lutto”, per esempio, anche le istituzioni e le forme di potere oppressivo, che stiamo contrastando in tutti i modi? Butler non si tira mai indietro di fronte alle sfide a tutto campo del pensiero filosofico, e invita noi a fare altrettanto.
Vittoria Longoni
bell hooks
“Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà”
Meltemi 2020
Provvidenziale questa pubblicazione del settembre 2020 da parte di Meltemi nella collana “Culture radicali” curata dal gruppo Ippolita.
“Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà” di bell hooks è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 1994, e anche se solo ora è stato tradotto in italiano, è comunque ancora di grandissima attualità specie in questo periodo pandemico e di lockdown, in cui la chiusura delle scuole e l’insegnamento a distanza sono al centro di un serrato dibattito.
L’autrice, afroamericana di origini proletaria, esponente del black femminismo, ci conduce attraverso la sua vita scolastica segnata dalla segregazione razziale, ma anche dalle delusioni incontrate nella scuola dell’integrazione razziale. “Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca.”
E le delusioni continuano all’università dove le docenti bianche dei Women’s studies “non erano desiderose di coltivare l’interesse delle studenti nere per il pensiero femminista”.
Questo non impedisce all’autrice di diventare a sua volta un’insegnante, che partendo dalle sue radici nere, si afferma come esponente del pensiero femminista della “pedagogia radicale” e come propugnatrice dell’idea che “l’aula dovesse essere un luogo eccitante, mai noioso”
Eccitazione e divertimento nell’istruzione e nell’insegnamento visto “come atto performativo” che ci costringe a “coinvolgere il pubblico, a considerare la questione della reciprocità”
L’aula quindi diventa uno “spazio più radicale dell’accademia” dove si pratica “l’insegnamento che rende possibili le trasgressioni – un movimento contro e oltre i confini- per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni. È quel movimento che rende l’educazione la pratica della libertà”
Insomma questo attualissimo testo scritto nel secolo scorso da bell hooks, grande intellettuale, attivista e femminista afroamericana, ci conduce con un linguaggio semplice e accessibile attraverso la teoria e la pratica di una pedagogia impegnata a costruire una comunità educante in un mondo multiculturale, una pedagogia femminista radicata nei Black studies e nel posizionamento di classe, e quindi intersezionale.
Una pedagogia tesa a realizzare un insegnamento che tenga conto del corpo e dei corpi, affinché apprendimento e insegnamento siano appassionati ed “erotici”. “Per riportare in aula la passione… i docenti devono ritrovare il luogo dell’eros dentro sé stessi e permettere alla mente e al corpo insieme di sentire e conoscere il desiderio.”
Giuliana Peyronel
Itikal Al Taii
“Le fave di Babilonia”
a cura di Elena Matacena
Tullio Pironti ed., Napoli 2020
“Ai due fiumi se n’è aggiunto un terzo in cui distinguo, ogni volta che l’attraverso i due corsi d’acqua originari. Ho visto il viso di me bambina e adolescente nell’Eufrate e quello della giovane donna prima nel Tigri e, poi, nel Danubio… Fino a quando riuscirò a specchiarmi nelle sue acque?.. Dov’è al-Khidr che aspettavo sempre con mia madre? Dov’è il Signore del Tempo, come lei lo chiamava? Ho acceso invano per lui le candele che sono rimaste a galleggiare e fluttuare sul fiume…”. Inizia così il racconto di Itikal Al Taii, una scrittura come un flusso, portata dalle acque vere e dalle acque del ricordo in cui intercala il suo vivere.
Lei nata a Babilonia, l’attuale Hillal, diplomata in scultura a Bagdad, negli anni ’70 é conduttrice del programma televisivo Il cinema e la gente che la rende popolare, anche agli occhi del partito ‘Ba’th’, che cerca di assoldarla fra le sue fila: tra di loro anche lo stesso Saddam, a cui lei chiede un incontro per chiarire il suo pensiero.
Ostacolata nel suo lavoro, ogni giorno rischierà l’arresto. Parte col primo volo, arriva a Budapest, dove nell’86 si diploma in critica cinematografica e costruisce la sua nuova vita; con lei, fra altri esuli, il marito Robert, la figlia Hanna, la corrispondenza con poeti, artisti e i cari rimasti, e il tempo del ricordo.
La scrittura scivola in improvvisi pozzi luminosi che portano anche chi legge in uno spaesamento di soglie, che si aprono vivide, quando il qui scompare nella mente dell’esilio. Dove siamo, dov’è il tempo, il Signore del tempo? Al Kidr, personaggio semi-misterioso citato nel Corano che avrebbe soccorso il profeta Musa, Mosè in arabo… Quali acque attraversiamo?
Una manciata di fave cercate al lume di candela dal ragazzo di un negozio, prima di ripartire, dopo il ritorno in Irak nel 2004, fave da seminare in giardino in Ungheria, produrranno frutti, per lei una piccola montagna di pietre preziose… Ma il ragazzo è stato ucciso, le dirà la sorella, “Era sciita”. Fave di Babilonia, come frutti d’antico verso il presente, frutti d’amore e lucido coraggio…
Rita Bonfiglio
Il libro, uscito con Tullio Pironti Ed.,a Napoli, nel febbraio 2020, è stato pubblicato con il sostegno della Biblioteca Arkès di Napoli, fondata da Elena Matacena, che ne cura l’edizione e che entrò in contatto con l’autrice a Budapest già nel ‘79 in un rapporto intenso da allora ininterrotto.