Sabato 9 febbraio il Manifesto ha pubblicato questo intervento di Lea Melandri in vista della giornata di protesta dell’8 marzo.
Sembra passato un secolo da quando la giornata dell’8 marzo si annunciava per le strade, nelle piazze, nei talk show televisivi col colore giallo delle mimose e con le rituali interviste sul significato che poteva ancora avere quella ricorrenza. In realtà sono pochi gli anni che ci separano dal 19 ottobre 2006, il giorno in cui partecipanti del movimento Ni Una Menos e di altre organizzazioni argentine convocarono lo sciopero di un’ora, e da quando, l’8 marzo 2017, faceva la sua comparsa in più di cinquanta Paesi del mondo il Primo Sciopero Internazionale delle donne.
Da allora, instancabilmente, la rete Non Una Di Meno rilancia anche in Italia per quella data lo «sciopero globale femminista» come risposta – così si legge nell’appello nazionale- «a tutte le forme di violenza che colpiscono sistematicamente le vite delle donne in famiglia, nei posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini». Non è necessario scorrere il lungo elenco delle ragioni che spingono le donne a incrociare la braccia – femminicidi, stupri, molestie, discriminazione salariale, doppio carico di lavoro, attacchi alla libertà di aborto, ritorno ai valori tradizionali di patria, famiglia, razza, ecc.- per capire che l’idea che si è avuta finora di sciopero, come rivendicazione sindacale, ritorna qui in forme profondamente mutate. Basterebbe lo slogan «Una giornata senza di noi» per mostrarne la portata rivoluzionaria rispetto a un sistema patriarcale e capitalista che nella divisione sessuale del lavoro, nel confinamento della donna nel ruolo di moglie e madre, continuatrice della specie, esclusa in quanto tale dalla sfera pubblica, ha costruito privilegi, ingiustizie, sfruttamento e ogni altra forma di dominio.
SE LE DONNE smettessero di occuparsi di famiglia, lavoro domestico, cura di bambini, anziani, malati e uomini in perfetta salute, se non volessero più essere un corpo a disposizione di altri, il mondo – come scriveva un secolo fa Virginia Woolf – sarebbe ancora «palude e giungla». Aver portato l’attenzione sugli interni delle case, sui rapporti di potere che passano attraverso le esperienze più intime, come la maternità e la sessualità, e aver riconosciuto, nella espropriazione che le donne hanno subito a partire dai loro corpi, una materialità dello sfruttamento irriducibile alle categorie economiche, è merito del femminismo degli anni Settanta.
Ma è solo oggi, venuto meno il confine tra privato e pubblico, che la violenza sulle donne appare in tutte le sue forme, invisibili e manifeste, e in tutte le molteplici parentele con i domini che hanno attraversato la storia: classismo, razzismo, nazionalismo, colonizzazioni, regimi autoritari, ecc. Per questo non stupisce se nell’appello si trovano, affiancati, intersecati, accanto alla parola «sciopero», l’invito ai sindacati «a proclamare lo sciopero generale per il giorno 8 marzo e a sostenere le delegate e le lavoratrici che vogliono praticarlo», la richiesta di ridistribuire il carico del lavoro di cura, il rifiuto del ddl Pillon, e del decreto sicurezza, visto come attacco all’ autodeterminazione delle donne e dei migranti. Sessismo e razzismo rivelano oggi di avere una comune matrice nel potere del sesso che, riducendo a «nuda vita» il corpo del diverso – le donne, l’ebreo, il migrante, lo straniero -, ne ha deciso il destino, cancellato o limitato la libertà, sfruttato la forza lavorativa.
UNA CONVERGENZA, neppure tanto nascosta, è quella che lega l’attacco alla libertà di abortire –minacciando di cancellarla dove è diventata legge, o di renderla di fatto inapplicabile – alle politiche delle destre nazionaliste preoccupate di salvaguardare l’«integrità della stirpe italica» dal rischio di contaminazione con altre culture. La violenza sulle donne, nella sua trasversalità, apre dunque – come sottolinea Veronica Gago, femminista argentina nella sua intervista con Maura Brighenti e Paola Rudan – una nuova «conflittualità sociale» e, proprio per questo, è necessario «fare connessioni», inventare un linguaggio, fuori da quello delle rivendicazioni, «per dire cosa significa politicamente questa trasformazione radicale». Ma se per «connessioni» non si intende solo alleanze, bisogna chiedersi cosa vuol dire cercarle nelle soggettività, nell’esperienza che ogni singola donna fa del suo essere al medesimo tempo appartenente a un sesso, a un genere, a una classe, a una particolare etnia o cultura. La «multiposizionalità», vista attraverso i vissuti personali, si rivela più complessa e contraddittoria di quanto non appaia nelle analisi sociologiche.
Potremmo scoprire che la consapevolezza di una violenza o ingiustizia subìta si accompagna spesso alla cancellazione di un’altra. Nel mio caso, figlia di contadini molto poveri, al centro è venuta prima la sessualità e solo più tardi, quando ho incontrato a Milano i movimenti non autoritari del ’68, la questione di classe. Tenerle insieme e capire come si intersecano, quali «nessi» passano tra forme diverse di sfruttamento, è stato del resto difficile anche sul piano politico, quando nel decennio anni ’70, il femminismo ha tentato di interrogare e ridefinire il conflitto di classe sulla base della specificità del rapporto tra i sessi: corpo, sessualità, maternità, affetti, relazioni famigliari, cura e lavoro domestico.
SE A MARX va il merito di aver portato allo scoperto il rimosso economico – il profitto – e a Freud il rimosso della famiglia borghese – la sessualità-, al femminismo va riconosciuto quel salto della coscienza storica che è stato scoprire la politicità della vita personale, cioè di tutte le esperienze, le più universali dell’umano, considerate paradossalmente «privato» e «natura». Non è un caso che la violenza al centro delle pratiche dell’autocoscienza e dell’inconscio sia stata, prima ancora che la violenza manifesta, la «violenza invisibile», l’interiorizzazione della rappresentazione maschile del mondo da parte delle donne stesse. Oggi lo slogan «modificazione di sé e modificazione del mondo» è l’utopia che possiamo pensare realizzabile, purché non si perda ancora una volta di vista il «sé» come luogo a cui è sempre necessario tornare e dare parola, anche quando le problematiche sociali hanno la complessità di oggi.
Lea Melandri