Nel panorama dei grandi chef italiani, Viviana Varese è una radiosa rarità. Già a 21 anni dirige un suo locale; nel 2007 apre con grande successo il ristorante Alice a Milano; nel 2010 riceve il premio come Migliore Chef Donna e nel 2012 conquista una stella della prestigiosa guida Michelin. Dal 2013 il suo ristorante è nel palazzo Eataly di piazza XXV aprile. Ora Alice è diventato VIVA, acronimo delle iniziali della titolare, ma anche manifesto e programma: l’impegno a lavorare sempre e solo con materie prime fresche.
Viviana Varese era alla Casa delle Donne martedì 18 febbraio e alla fine di un incontro memorabile per interesse e novità ha fatto una promessa: “A maggio torno e prepariamo una grande cena qui, di sostegno alla Casa”.
Il titolo dell’appuntamento era: “Tante donne in cucina. Ancora pochissime chef”.
Come mai proprio un terreno femminile per antonomasia è stato colonizzato dagli uomini? Secondo Elisabetta Ruspini, sociologa dell’Università Milano Bicocca, qui gli stereotipi di genere funzionano molto bene. “Basta osservare le immagini tv e su internet. Le donne, anche se famose, indossano il grembiulino e vengono riprese in spazi interni, o a casa loro. Gli uomini, in divisa da chef, campeggiano in grandi cucine professionali, magari impugnando un coltellaccio o una mannaia. Aggettivi usati per gli uomini cuochi: creativi, belli, innovativi, affascinanti. Per le donne: custodi della tradizione”.
Eppure la prima tristellata Michelin è stata Eugenie Brazier, detta Mère Brazier, di Lione, quella che ha dato inizio all’alta cucina francese, la maestra di Paul Bocuse.
I numeri di oggi parlano chiaro: le donne chef nel mondo sono il 3% (l’1% in Francia) del totale. In Italia sono 47, il 13%, ma molte lavorano in imprese di famiglia. Un ambiente ostile, respingente? Sembrerebbe di sì. Caterina Mosca, chef e autrice di libri, che ha moderato il dibattito, afferma con sicurezza: “Le cucine sono luoghi di una violenza inaudita, dove l’ego maschile raggiunge livelli di cattiveria indicibili. L’organizzazione è fortemente gerarchica, di stampo militare. Il personale di cucina si chiama non a caso brigata”.
“Siamo poche nei grandi ristoranti, ma tante nell’insegnamento – nota Beatrice Cassano dell’Associazione Insegnanti di Cucina – perché il luogo comune ritiene che si tratti di passare competenze semplici, cosa assolutamente non vera”. E anche perché, incalza Caterina Mosca,“l’insegnamento non è uno spazio dove si vince, è uno spazio dove si dona. Ci vuole generosità femminile, non ego maschile.”
Niente da fare dunque? Un mondo destinato a rimanere immobile? Tutt’altro. “Da tempo – racconta Viviana – faccio parte dell’associazione Parabere, un forum di donne. Ci troviamo una volta l’anno, prima dell’otto marzo, in città sempre diverse. Arriva da tutto il pianeta l’eccellenza delle donne: cuoche e contadine, sommelier e allevatrici, pasticcere e ristoratrici, giovani, anziane, in sari o in costume tradizionale. Abbiamo stretto un’alleanza. E il titolo dell’ultimo convegno era, guarda caso, Changing the game.
La cucina machista, chiamiamola così, è un mondo violento, montagne di chef hanno avuto denunce. È un clima forte, organizzato come se si fosse davanti a un plotone di esecuzione. Non si può sbagliare, si lavora a temperature alte, si urla perché bisogna farsi sentire. Non a caso i cuochi soffrono spesso di depressione, ci sono tassi di suicidi molto alti”.
Misoginia, ma anche omofobia e razzismo. Continua Viviana: “La cucina è il regno dell’intolleranza. Non puoi essere debole, non puoi essere gay. Io ho tanti ragazzi gay che vengono a lavorare da me, perché sono stati maltrattati in altri ristoranti. In Italia, ma anche nel resto del mondo, in cucina devi essere uomo, bianco, etero…”
E allora, le eccezioni come Viviana, che è donna, si dichiara omosessuale e ammette che anni fa era anche era anche obesa (“le avevo tutte”, ride) da dove saltano fuori? “Vengo da una famiglia di ristoratori e quando, giovanissima, ho deciso di riaprire il ristorante di mio padre, mi sono ritrovata subito imprenditrice, capo. All’inizio eravamo solo tre donne. Adesso, con due ristoranti, ho 70 persone da gestire e un sacco di stagisti, perché c’è grande bisogno di personale. Ho cominciato ad assumere rifugiati, persone di colore, musulmani. All’inizio inconsapevolmente, adesso molto consapevolmente, ho creato un laboratorio sociale, un luogo dove nessuno sia più violento. La mescolanza, la diversità, crea non solo armonia ma anche un cibo diverso. Cambia il linguaggio della cucina.”
Liliana Belletti